Con l’ipertrofia dei brevetti originatasi soprattutto negli Stati Uniti al volgere del millennio, e poi importata a rimorchio in Europa, ormai è pressoché impossibile realizzare una qualsiasi applicazione tecnologica senza violare un qualche tipo di brevetto. Non importa se si tratti di uno standard di comunicazione, di uno standard sui formati, di uno standard multimediale, ogniqualvolta si tratti di normare un settore tecnologico, l’interferenza con (spesso molti) brevetti è inevitabile.

È un problema? Sicuramente lo è. Per capire meglio di cosa si tratti, facciamo un piccolo passo indietro e interroghiamoci a cosa servano i brevetti.

La funzione dei brevetti nell’economia

La teoria economica fondamentale

I brevetti vengono riconosciuti come un incentivo all’innovazione. La teoria economica è sufficientemente chiara e semplice. Tizio inventa qualcosa, ci mette anni e anni, investe ingenti capitali in ricerca e sviluppo, va sul mercato. Il suo prodotto, costa dieci euro. Ma se lo vende a dieci euro e dieci centesimi, cosa ne è di tutto l’investimento fatto? Per cui ammortizza il costo su un numero sperato di prodotti venduti. Il prodotto dunque esce a quindici euro.

Caio vede il prodotto di Tizio, pensa che sia una bella invenzione. Ne compra uno, lo osserva, capisce come è fatto e decide che anche lui è in grado di fare la stessa cosa. Il prodotto gli costa dieci euro, esattamente come a Tizio. Lo vende a undici, guadagna uno. Il prodotto di Tizio è fuori mercato. Allora, vista la concorrenza, Tizio abbassa il costo, ma anche così lui vende solo la metà dei prodotti che sperava, da un certo punto in poi, e per giunta con un margine molto inferiore. Tizio perde, Caio guadagna sulle spalle di Tizio. Sapendo di correre questo rischio, si dice, è probabile che Tizio nemmeno si metta a investire. È un gioco somma negativa. Non solo per Tizio e per Caio, ma per tutto il sistema, che così non riceve i benefici delle possibili invenzioni che così non verranno immesse sul mercato.

La soluzione trovata a questo dilemma è stata sinora quella di garantire a chi dimostri di aver dato un contributo all’avanzamento della tecnica, ovvero aver creato e concepito qualche idea che prima non esisteva, un limitato monopolio sull’utilizzo di quell’idea sul mercato. Il monopolio gli consente di estrarre la rendita del monopolista, sia direttamente, sia vendendo il permesso di praticare la stessa invenzione.

La limitazione della protezione è funzionale allo sviluppo della tecnologia nel settore protetto.

Il monopolio è limitato in due sensi: non si brevetta un intero prodotto (come comunemente si tende a pensare), ma solo sulla parte innovativa di esso, sull’idea che non esisteva, è dunque limitato nell’oggetto; inoltre, è limitato nel tempo: la privativa dura vent’anni, poi l’idea diventa “di pubblico dominio” e chiunque può praticarla commercialmente. Questo connubio tra la fase di privativa e la fase di pubblico dominio è importante, senza l’una non potrebbe esistere l’altra. Per ottenere questo risultato, una delle condizioni per ottenere il brevetto è quella di compiutamente descrivere l’invenzione, cosicché un esperto del ramo sia in grado di riprodurla solo leggendone la descrizione. Brevetto e segreto sono incompatibili perché l’invenzione deve entrare nello stato della tecnica.

La limitazione temporale è chiara, ma anche quella sull’oggetto lo è, nella teoria economica. Concentrandoci solo sulla parte che è rilevante al nostro discorso, il fatto che la protezione sia limitata solo alla parte strettamente necessaria a praticare in pace la propria invenzione e nulla più, ovvero non sia debordante (“overbroad”) serve allo scopo di incentivare l’ulteriore innovazione. Se il primo arrivato fosse in grado di ottenere il monopolio su tutto ciò che ha a che fare con la propria invenzione, ben difficilmente un secondo inventore investirebbe nello stesso campo, sapendo di essere alla mercè dell’arbitrio del monopolista. 1{#fnref1.footnoteRef}

Il gioco concorrenziale che (teoricamente) si crea è anch’esso (sempre in teoria) semplice. Chi volesse fare concorrenza a Tizio ha due strategie fondamentali: pagare il permesso (= licenza) o trovare un altro modo di praticare la stessa invenzione (“to invent around”). Se Tizio chiede troppo come compenso per praticare la propria invenzione, Caio sarà incentivato a trovare una soluzione diversa tra le varie possibili, e dunque creerà magari un modo più intelligente di risolvere lo stesso problema. In questo modo, si lascia spazio al mercato, e all’ulteriore innovazione, per cui Tizio tenderà a chiedere un prezzo ragionevole per la licenza; se non lo farà, Caio avrà un’alternativa praticabile, aggirando l’ostacolo della privativa, e in ogni caso si incentiva l’incremento tecnologico. Il gioco qui è a somma positiva e tende a calmierare i prezzi e a incentivare l’ulteriore ricerca.

Teniamo a mente il concetto di invent around, che ci servirà nella discussione più oltre.

Il cross licensing, il primo fallimento

La teoria economica classica dei brevetti va avanti con una possibilità ulteriore. Poniamo che Tizio e Caio si accordino. Ancora, Caio sarà incentivato a innovare ulteriormente, perché se da un lato ora può praticare l’invenzione che gli serve, dall’altro ogni volta che vende fa un favore anche a Tizio, che guadagna con la vendita di entrambi. Se però Caio riesce a trovare un modo più raffinato di utilizzare l’invenzione originale (“invenzione di sviluppo”) egli potrà a sua volta ottenere un brevetto su quella parte innovativa a valle, e praticare in esclusiva, a parti invertite con Tizio.

A questo punto un terzo che dovesse cercare di entrare sul mercato, dovrebbe chiedere il permesso sia a Tizio che a Caio.

Ma tra Tizio e Caio, cosa succede? Molto probabilmente essi si metteranno d’accordo affinché, invece di pagarsi le licenze l’un l’altro, si paghi solo la differenza tra quello che l’uno deve all’altro e viceversa. Anche stabilire quanto Tizio debba a Caio per ciascun prodotto è difficile: vale di più l’invenzione di uno o quella dell’altro, visto che entrambe sono necessarie e non sufficienti a costruire il prodotto più avanzato? Molto spesso Tizio e Caio si mettono d’accordo per non “pesare” i rispettivi brevetti, semplicemente si dicono che i portafogli di entrambi valgono uguale e amici come prima. Questo sistema si chiama cross licensing.

Tutti contenti? Il terzo non è contento, perché a questo punto egli ha due concorrenti che hanno i brevetti, e lui no. Non avendo brevetti, egli non avrà moneta di scambio, non potrà entrare nel sistema del cross licensing. Si è creata una situazione che tende all’oligopolio, un club in cui chi è dentro tende a tenere fuori chi non lo è. Certo, anche il terzo operatore potrà mettersi di buzzo buono e inventare qualcosa di nuovo, o di cercare di aggirare i brevetti, ma più questo gioco va avanti, meno saranno le possibilità di entrare nel club, soprattutto perché i primi brevetti tendono a essere i più generici, quelli successivi ad avere qualche tipo di interferenza con i primi (più ad essere di sviluppo, che totalmente alternativi).

Insomma, si creano barriere all’entrata.

I brevetti tecnologici

Nella tecnologia moderna il susseguirsi di innovazioni è sempre più tumultuoso, e ogni campo tende a essere denso di brevetti, un vero e proprio campo minato. Allo stesso tempo, l’innovazione sempre più spinta tende a rendere obsoleti i principi poco tempo prima ritenuti innovativi.

Da un primo punto di vista questa situazione crea un primo rilevante fallimento, quello di non avere più uno spazio di esercizio del pubblico dominio, che diventa privo di senso: un’invenzione di vent’anni prima difficilmente sarà da sola sufficiente ad essere praticata.

Il protrarsi della protezione porta anche a un secondo, paradossale, effetto: quello del disincentivare l’innovazione. Riconoscendo una posizione di rendita ai primi arrivati, in quanto i loro brevetti sono fondamentali per tutti gli altri, per costoro è meno conveniente concentrarsi sull’innovazione, che comunque aggiungerà poco e costerà tanto, rispetto a concentrarsi sulla massimizzazione dei proventi ottenuti dalle licenze, che non richiede più investimenti. Ciò fa sì che i primi siano in posizione asimmetrica avendo un maggior potere interdittivo generale rispetto ai nuovi venuti, coloro che hanno i brevetti più innovativi (perché più recenti) ma anche più specialistici e limitati nello scopo, se pur non necessariamente meno importanti o costosi da ottenere.

Nella tecnologia avanzata, infine, si tende a moltiplicare all’infinito la complessità della rete di brevetti che insistono su ogni minimo componente tecnologico, tanto da creare quello che viene definito un “roveto di brevetti” (“patent thicket”)2{#fnref2.footnoteRef}, in cui non è più tanto importante la qualità dei brevetti che hai, ma la quantità di essi, il fatto di possedere quella massa critica che ti fa arrivare al tavolo di negoziazione per avere un cross licensing alla pari con gli altri.

Si è da varie parti evidenziato, infine, come nel software la parte inventiva sia ridicolmente meno importante della parte di esecuzione (sviluppo, testing, supporto), nel valore delle singole applicazioni, e spesso i brevetti sono un artefatto postumo, ricavati ex post dal realizzato, senza precisi e separati sforzi di ricerca, ma solo di sviluppo, per giunta non dedicati tanto all’innovazione, quanto all’applicazione in sé, parti innovative come parti non innovative.3{#fnref3.footnoteRef}

Entrino gli standard (nel software)

Se nella teoria classica il concetto di invent around è importante, nella realtà la possibilità di ricorrervi è molto minore di quella teorica. Cosa succede se tale possibilità è inesistente? Se vi fosse un impedimento assoluto ad aggirarli, non avremmo dato un eccessivo potere ai singoli brevetti? Cosa sarebbe della limitata concorrenza che il sistema brevettuale pur concede, al fine di non concedere la possibilità di innovare solo al primo venuto? La teoria economica alla base dei brevetti, verrebbe di sicuro a cadere.

Questa situazione avviene quando una tecnologia brevettata entra in uno standard.

Una volta che uno standard è stato creato e diventa di fatto inevitabile, ecco che la teorica possibilità di aggirare l’ostacolo viene meno. L’alternativa è infatti molto poco appetibile, e cioè ignorare lo standard, o crearne uno alternativo. Ma se i grandi operatori si sono messi d’accordo per seguire quello standard, la chance che un piccolo operatore, magari enormemente innovativo, possa farci qualcosa è spesso minima. Non tutti possiamo avere la grandeur che faceva dire ai Britannici, all’epoca dell’Impero:

“la Manica è in burrasca oggi, il Continente è isolato”.

Il gioco degli standard e dei brevetti “necessariamente violati”

Se non puoi passargli sopra (aspettare che scadano) o girargli intorno (trovare strade alternative), ecco che concedi a chi ha brevetti che sono “necessariamente violati” da chi implementa lo standard una posizione di vero e proprio monopolio assoluto non mitigato da una limitata concorrenza tra monopoli.

In passato ci si è posti un serio problema di antitrust nei confronti dei partecipanti alla standardizzazione e agli stessi enti standardizzatori. D’altronde è facile intravedere nella ricerca di un consenso tra concorrenti (gli standard formali richiedono il consenso degli stakeholder) la possibilità di un accordo per sfruttare in modo anticoncorrenziale l’esistenza di brevetti. Tra un accordo, di per sé del tutto legittimo, di standardizzazione e un cartello la differenza è minima. Per quanto riguarda i brevetti, tale differenza sta nel fatto che i partecipanti allo standard si impegnino più o meno formalmente a concedere una licenza sotto condizioni ragionevoli e non discriminatorie, ovvero, con un acronimo abbastanza conosciuto RAND.

Le licenze RAND e i patent pool

Chi frequenta i trasferimenti di tecnologia e gli accordi di licenza sugli standard, conosce assai bene sia il termine “RAND” (frequentemente “FRAND”) e “patent pool”. Cominciamo con il primo termine.

(F)R ((Fair), Reasonable) :Le condizioni di licenza debbono essere ragionevoli, ovvero non richiedere un compenso eccessivo rispetto al “valore” del singolo brevetto o del portafoglio di brevetti che si ottiene. Questa valutazione deve essere effettuata ex ante, non tenendo conto del valore strategico che le privative licenziate hanno in quanto inserite nello standard (c’è chi dissente). “Fair” e “Reasonable” sono largamente sinonimi.

A (And) :Entrambi i requisiti legati da “and” debbono essere presenti.

ND (Non Discriminatory) :Le condizioni debbono essere offerte a chiunque e in modo equanime, senza favorire nessuno. Un’eccezione sovente praticata è che chi fa parte del patent pool (perché licenziante) non sia soggetto al pagamento di royalty.

Se il principio di non discriminazione dà luogo a pochi dissidi, il concetto di “ragionevole” è fonte sovente di diverse interpretazioni. Va ricordato che le regole sulle licenze dei brevetti “vincolano” (attraverso varie teorie, che omettiamo per brevità) il titolare dei brevetti a rispettare la sua dichiarazione. Ma la genericità di tale affermazione è tale da frustrare sin dall’inizio ogni velleità di contestarla, se non in alcuni casi. 4{#fnref4.footnoteRef}

Il fallimento di tale gioco può avvenire però quando uno o più titolari di brevetti non siano, almeno formalmente, coinvolti nelle attività di standardizzazione, e dunque non risultino vincolati dalla dichiarazione effettuata all’ente standardizzatore. Nel caso Rambus,5{#fnref5.footnoteRef} la società è stata accusata di “patent ambush”, ovvero di aver teso un’imboscata, facendo sì che lo standard implementasse una sua tecnologia, per poi imporre royalty eccessive per il permesso di praticarla, senza che contro di essa fosse invocabile un obbligo RAND. Ma anche nel caso in cui un soggetto abbia effettivamente sottoscritto le condizioni RAND, vi sono spazi per abusi. Un caso piuttosto chiaro (e che richiama il caso Apple v. Motorola) mi è capitato recentemente.

Un noto standard, in cui si è formato un altrettanto noto patent pool, licenzia più di un migliaio di brevetti per una cifra poco più che simbolica (pochi centesimi a copia, con un’esenzione per un primo quantitativo annuale di copie); un noto operatore ha chiesto a un mio cliente il pagamento di una somma non molto differente per meno di una decina di brevetti. In difetto di una prova convincente, è abbastanza difficile pensare che quei brevetti valgano ciascuno più di quanto valgano in aggregato i cento brevetti più importanti conferiti nel patent pool, anche a voler pensare che il 90% di essi sia fuffa.6{#fnref6.footnoteRef} L’obiezione che i membri del patent pool possano essere filantropi e aver licenziato i propri brevetti sottocosto sembra ben poco valida: proprio il fatto che si sia creato un patent pool che ha calmierato le pretese di ciascuno (abbia impedito il royalty stacking) ha probabilmente decretato il successo dello standard (di tale fenomeno si discute in Apple v. Motorola).

Come sia conclusa la vicenda parrebbe ovvio: irretito dalle mie puntuali obiezioni, convinto dall’irrefutabilità dei riferimenti alle norme e alle sentenze, il noto operatore ha receduto dal suo proposito e si è ritirato in buon ordine, accontentandosi di briciole, giusto?

Sbagliato. Il titolare non ha nemmeno fatto lo sforzo di replicare, ben sapendo che nessuno sano di mente avrebbe speso quello che avrebbe potuto costare una causa, con la prospettiva di essere coinvolto anche in un’ingiunzione che avrebbero impedito la commercializzazione dei prodotti che implementano lo standard, per risparmiare una somma che può rappresentare una frazione dei costi legali.7{#fnref7.footnoteRef}

Le licenze RAND e le licenze di Software Libero / Open Source

Abbiamo tralasciato per un attimo il discorso della non discriminatorietà. Se Tizio viene e mi chiede una licenza, gliela do. Se Caio viene e mi chiede la stessa licenza, gliela do alle stesse condizioni, non dovrei essere discriminatorio, anche se Tizio ha uno un margine del 30% su ogni vendita, e Caio a malapena fa il break even e con la licenza il suo prodotto diventa diseconomico, magari perché i due sono sottoposti a pressioni concorrenziali notevolmente differenti.

Questo è almeno il discorso che viene effettuato tutte le volte che si avanza l’obiezione secondo cui le condizioni RAND, anche qualora prevedano royalty molto basse, sono incompatibili con il Software Libero / Open Source. Queste sono licenze pubbliche, in cui non esiste il concetto di “venditore” e “acquirente”, per cui è impossibile controllare quante copie del software siano in circolazione.

Ci si dice “è una vostra scelta quella di adottare un modello di licenze incompatibile con la nostra scelta di cosa offrire”. Tale affermazione è accettabile se la applichiamo in un modo dove la concorrenza è solo all’interno di un singolo modello di business e laddove tale modello di business sia quello di “vendere copie di software” (se applicato al software). Ma è evidente che in un modo dove il modello di vendita di licenze di software diventa sempre meno importante, laddove anzi nel software (e altrove!) il modello aperto è molto spesso la regola, un sistema di standardizzazione legato a modelli passati e unici risulta discriminatorio.

Sicuramente, ad ogni modo, un sistema che discrimina e impedisce l’accesso alla tecnologia verso una delle strategie di sviluppo e di licensing di maggior successo non può dirsi aperto, in quanto non può ritenersi aperto e neutrale un sistema che impedisca l’acceso a certe tecnologie e operatori legittimamente sul mercato, imponendo specifiche modalità di business. Un modello di standard che si limiti a prevedere un obbligo di (F)RAND basato su royalties e comunque sulla necessità di controllare il numero di copie distribuite è in aperta antitesi con un ampio settore di operatori che non solo legittimamente, ma anche con grande beneficio comune, hanno adottato un modello di rilevante successo, è chiaramente un’esclusione ingiustificata, quando parliamo di standard.

  • Cosa che accadde ed è molto studiata nel caso dei brevetti di Watt sulla macchina a vapore. Per approfondimenti, si veda il lavoro di Michele Boldrin e David K Levine “Against Intellectual Monopoly” Cambridge University Press 978-0-521-87928-6. L’introduzione è disponibile tramite il MISES Blog https://mises.org/library/james-watt-monopolist
  • La parola “thicket” indica una zona impenetrabile a causa di una crescita disordinata ed eccessiva di vegetazione.
  • Una posizione simile è quella di Richard Posner, Scuola di Chicago, dunque liberista ed estremamente pro-market, in Do patent and copyright law restrict competition and creativity excessively? Posner, Becker-Posner Blog (http://www.becker-posner-blog.com/2012/09/do-patent-and-copyright-law-restrict-competition-and-creativity-excessively-posner.html)
  • Esemplare il caso Apple v. Motorola. Una buona fonte per approfondimenti è la pagina di Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Motorola_Mobility_v._Apple_Inc. Un’altra buona fonte è, a cura della Direzione generale antitrust della Commissione Europea, Standard-essential patents, in Competition Policy Brief, Issue 8, June 2014 (http://ec.europa.eu/competition/publications/cpb/2014/008_en.pdf)
  • Vedi il già citato paper della Commissione nelle note precedenti.
  • Termine rigorosamente tecnico
  • L’imprecisione dei riferimenti e delle cifre è intenzionale, serve solo a dare gli ordini di grandezza, ma i dettagli e le identità sono ovviamente confidenziali.